Home
Valle dell'Idice: viabilità storica

Morfologia

Cicli storici
Viabilità storica
Legislazione (urbanistica)
Legislazione (ambiente)
Alta velocità

La viabilità storica nella valle dell’Idice di Paola Foschi

Vie di
comunicazione

Paesaggio

Viabilità
etrusca

Viabilità
romana

Viabilità
medievale

Insediamento

Flaminia
minore

Leggende

 

La via Flaminia minore

La funzione ricoperta da questa strada, di asse di collegamento prima militare poi commerciale fra Bologna e la Pianura Padana e l’alto corso del Tevere e Arezzo, è attestata già in età preromana, se è vero che esistono precisi rapporti fra la ceramica attica (cioè greca) ritrovata a Spina, sul Po, quella scavata nell’abitato etrusco-gallico di Monte Bibele e la ceramica aretina. Monte Bibele in effetti è un nodo logico indispensabile per collegare le due realtà - padana e tiberina - che altrimenti resterebbero così lontane e non comunicanti, è il tramite grazie al quale due culture divise dalla pianura del Po e dall’Appennino si sono incontrate e hanno formato un unico bacino commerciale e culturale, all’interno dell’Italia in corso di conquista da parte dei Romani. Monte Bibele non sorgeva sul preciso percorso della Flaminia minore, ma su un massiccio montuoso che caratterizza la valle del torrente minore Zena, dal quale tuttavia il collegamento con la strada è intuitivo e avviene continuamente a vista; il fiorente insediamento etrusco, continuato con l’occupazione celtica, in questa vallata secondaria, creata da un torrente che non nasce dal crinale appenninico, deve avere avuto lo stesso significato della presenza nella medesima valle di ben due pievi altomedievali vicine - S. Maria di Zena o del Monte delle Formiche e Gorgognano - cioè di condizioni favorevoli ad un intenso popolamento proprio lì, appartato ma vicino a grandi vie di comunicazione e dotato di buone risorse naturali (il rame, per Monte Bibele), doti che dovettero essere apprezzate proprio in quel primo Medioevo turbinoso che vide numerose invasioni barbariche.

Il percorso di questa strada romana e poi medievale è dunque indicato da numerosi reperti archeologici, e integrato da documentazione più recente. La sua più antica attestazione è però quella di Tito Livio: egli racconta che, cessate le scaramucce dei Liguri e pacificato il territorio padano, per non lasciare in un ozio pericoloso e improduttivo i legionari, i consoli di quell’anno 187 a.C. fecero loro tracciare due strade, Marco Emilio Lepido quell’arteria fondamentale delle comunicazioni padane che è la via Emilia, Gaio Flaminio l’asse trasversale e transappenninico fra la base delle operazioni militari, Arezzo, e la pianura appena pacificata e colonizzata. Due soli anni prima, infatti, si era tracciato il perimetro della colonia di Bononia e si erano inviati coloni latini a popolarla. La città di Claterna, inoltre, è uno dei possibili capolinea in età romana della Flaminia minore: tuttavia questo municipio non raggiunse mai una grande importanza nel quadro del popolamento romano della Pianura Padana inferiore e nel tardo Antico decadde fino a scomparire come entità urbana.

Vediamo dunque il percorso della strada, quale viene delineato da questa serie di reperti archeologici, documenti anche grafici e dalla presenza di monasteri e ospizi per pellegrini: sulla via Emilia sorse, probabilmente nell’XI secolo, l’ospedale di S. Giacomo dell’Idice., sul punto dove la Tabula Peutingeriana, una riproduzione grafica medievale della rete stradale romana del I secolo d.C., segnala la presenza di una stazione di posta, indicandola con il nome di Isex flumen. Probabilmente chiesa e ospedale per viaggiatori furono costruiti con le stesse pietre della stazione romana distrutta: infatti ancora oggi nella muratura del fianco rivolto alla via Emilia si vedono mattonelle esagonali per pavimenti e altri mattoni manubriati romani (dotati cioè di un incavo per afferrarli meglio), come alcuni blocchi di selenite che sottolineano gli spigoli della costruzione.

La strada saliva poi a Castel de’Britti, guadagnando il crinale fra Idice e Quaderna. Un documento del 1208 ricorda infatti la strata Flaminga che confina con il poggio di gesso su cui sorge Castel de’Britti. Alla pieve di Pàstino si ritrovano continuamente mattoni manubriati romani e da qui proviene la lastra tombale scolpita di Ulpia Psiche, oggi al Museo Civico Archeologico: come sappiamo, i Romani seppellivano i loro morti fuori dai centri abitati lungo le strade principali. Ciagnano e Settefonti erano le tappe successive: anche la chiesa di Settefonti ha restituito altri mattoni romani. Non lontano il pellegrino poteva trovare ospitalità presso le monache camaldolesi di S. Cristina, che costruirono qui il loro monastero alla fine dell’XI secolo. Forse anche grazie all’impulso alla colonizzazione della zona dato dal monastero di Settefonti fin dalla fine dell’XI secolo si vennero a creare quei fenomeni di disboscamento e di messa a coltura che, se non determinarono, però favorirono la franosità dei versanti della bassa valle che costrinse le monache a spostarsi a Bologna nella contrada della Fondazza già nel 1245. Ricordiamo che numerosissime attestazioni in documenti del 1315, 1385 e 1451 (circa 50) di una strata o strata Flamengna o Flamenga lungo tutto il crinale orientale dell’Idice, fino a Sassonero dove un documento del 1105 attesta la presenza della strada, ci rendono certi che la strada aveva questa direzione.

Anche l’abbazia vallombrosana di S. Maria di Monte Armato è un’altra tappa nella rete di ospitalità religiosa: oggi ne resta solo la chiesa, restaurata nel dopoguerra nelle sue semplice forme romaniche. Poco oltre, la Migliarina è oggi una casa abbandonata che non mostra caratteri di antichità, ma una trentina d’anni fa fu un altro luogo in cui furono ritrovati laterizi romani di vario tipo, ad indicare una frequentazione antica del sito, posto com’è a cavaliere e in posizione panoramica fra le valli dell’Idice e del Sillaro (ormai a monte della sorgente del Quaderna). La tappa seguente è Monterenzio Vecchio, con i ruderi della chiesa che segnano il colle su cui fino al secolo scorso si trovava l’abitato originario: questo colle è stato per anni sede di uno scavo condotto dall’Istituto di Archeologia dell’Università di Bologna, collegato a quello di Monte Bibele, che ha portato alla luce altri interessanti reperti sia della civiltà etrusca che di una cultura precedente dell’età del Bronzo, a riprova della lunga frequentazione di questa media valle.

Poco lontano, a Scaruglio una casa conserva ancora, pur se ristrutturato, il tipico "balchio" medievale, la scala coperta esterna, molto usata nell’architettura trecentesca cittadina e campagnola; nella vicina Bersedola, dove la guerra ha distrutto una casa torre che Luigi Fantini aveva fermato con l’obiettivo della sua macchina fotografica, nel 1315 esisteva un albergum, una locanda a pagamento, la cui attestazione diretta è molto rara nel panorama della viabilità medievale bolognese. Forse proprio qui sorgeva anche la torre detta Fiamenga che rafforzava il fortilizio di Bisano nel 1296.

La tappa seguente era Casoni di Romagna: in questa zona, compresa nel territorio della comunità di Sassonero, si trova forse il maggior numero di attestazioni medievali della strada: ben 18, fra il documento del 1105 che è il più antico a ricordarla, e il 1475, a cui risalgono le altre 17 attestazioni. Insomma, in una zona oggi del tutto desolata e spopolata, nel Medioevo gli abitanti erano ben consapevoli che nel proprio territorio passava una via dotata di un nome proprio, che era ben nota a tutti dal momento che lassù sul crinale segnava il confine con la vicina comunità di Bisano. Ancora un altro ricordo della strada è il nome che aveva una foresta qui in zona, nel 1389, la silva Flamingha, che stava all’incirca dove oggi c’è la località la Selva, presso Bisano.

Nel suo tratto montano era una strada confinaria: la via Fiaminga fu riconosciuta infatti in una nutrita serie di visite ufficiali ai confini - nel 1702, 1704, 1724, 1734, 1788 e 1794 - fra Stato Pontificio, Contea di Tossignano e Granducato di Toscana, come segnante la linea di confine, essendo posta peraltro lungo il confine naturale del crinale Idice-Quaderna e più a monte Idice-Sillaro, che divideva appunto i tre stati. Addirittura nel 1724 il pubblico perito e ingegnere bolognese Gregorio Monari la chiama Flaminia, forse inconsapevolmente recuperando il suo nome originario, guastato da secoli di trasformazioni linguistiche volgari. La splendida serie di mappe acquerellate che concluse e sancì la visita del 1788 - oggi conservate alla Biblioteca dell’Archiginnasio - la riporta inequivocabilmente come strada ben nota e ancora in uso, dal momento che queste visite erano eseguite da rappresentanti del potere politico, da esperti come periti e ingegneri, ma anche e soprattutto da persone pratiche dei luoghi e dai massari delle comunità circostanti, per essere sicuri di seguire i confini tradizionali e di non sbagliare (fatto che avrebbe creato incidenti internazionali!).

La tappa successiva, dove si poteva trovare ospitalità prima di affrontare il valico, era lo Spedaletto, l’ospizio di S. Bartolomeo de Fiamengha, oggi casa colonica abbandonata, ma ancora funzionante nel 1788 e disegnato in pianta con la chiesa e altre case annesse dall’architetto bolognese Gian Giacomo Dotti, proprio sul confine, con metà degli edifici del complesso nello Stato Pontificio e l’altra metà nel Granducato di Toscana. Le solitudini ventose di questo tratto del percorso trovano nel Sasso di S. Zenobi un’emergenza inquietante, che appare al viaggiatore più in basso rispetto alla strada, nel versante del Sillaro, ma che con la sua mole nera appena ingentilita da qualche stento ciuffo d’erba ricorda ai passanti la leggenda dell’incontro di s. Zenobi e il diavolo. In vicinanza del valico esisteva un percorso alternativo, che fu senz’altro seguito nel Medioevo, che si dirigeva direttamente a Caburaccia senza varcare la Raticosa, restando ad est del Colle di Canda. La valle del torrente Diaterna, oggi del tutto deserta e spopolata, fino al secolo scorso era fiorente di abitati e popolazione e permetteva di raggiungere direttamente e in breve tempo Firenzuola attraverso il Peglio, luogo di significativi ritrovamenti etruschi e famoso nel Settecento per i fuochi fatui che si accendevano nelle sue campagne la notte, molto ammirati dai viaggiatori europei che compivano il Grand Tour in Italia. Noi oggi sappiamo che si tratta di fenomeni legati all’origine vulcanica della zona più alta dell’Appennino (come del resto i numerosi ofioliti che la costellano), ma due secoli fa si favoleggiava di spiriti di defunti e apparizioni diaboliche.

Attività: cerca sulla cartina e segna con una "M" il massimo numero di località in cui sono stati segnalati ritrovamenti medievali.