Mi chiamo Davide, ho tredici anni e ahimé,…
sono ebreo. Non che ciò mi dispiaccia, anzi ne sono fiero, ma
ultimamente questa mia origine mi sta rendendo la vita un inferno.
E’ da un bel po’ di tempo che provo
un’ansia che mi stringe il petto e una gran paura, perché
a scuola alcuni miei compagni mi prendono in giro per la mia
religione
e le persone per strada mi guardano come se fossi
un cane rabbioso.
L’ultimo mio giorno di scuola ho salutato i
miei compagni che si erano messi intorno al mio banco, ho spiegato
loro che me ne sarei dovuto andare in una scuola riservata agli ebrei
e ho salutato il maestro che poco prima ci aveva parlato del mio
popolo, descrivendolo come un popolo “forte”.
Sono uscito dall’aula salutato da braccia
destre tese e inni fascisti.
Ora sono confinato in un ghetto e spesso provo in
contrasto con la paura un senso di forte rabbia nel vedere gli altri
bambini correre felici, mentre noi confinati qui, siamo trattati come
esseri inferiori soltanto per una legge ingiusta di Mussolini. Che
cosa gli avremmo mai fatto, per volere la distruzione di tutti noi?
Intanto sono nel terrore più totale e sto cercando una via
d’uscita perché, ripeto, temo non tanto per il presente
ma l’avvenire: un giorno scherniti l’altro emarginati e
poi? Cosa potrà succedere?
Per questo devo vincere l’ansia e trovare un
altro luogo dove ricominciare.
Mi chiamo Samuele ho tredici anni e sono un
ragazzo ariano.
Oggi Davide, il mio compagno ebreo, ci ha
salutati per l’ultima volta spiegandoci che se ne sarebbe
andato in una scuola riservata agli ebrei.
Ultimamente si comportava in modo strano e, non
dico che lo capisco, perché sia a casa che a scuola mi
insegnano a non allacciare rapporti con gli ebrei, ma ho provato ad
aiutarlo e, contro gli insegnamenti, a capirlo. Neanche a dirlo mi
sono arrivati bigliettini minatori che mi intimavano di non
frequentarlo e mi descrivevano come amico degli ebrei. Ciononostante
gli sono stato e gli sto tuttora vicino. Mi sono anche informato su
quello che gli accadrà e non ho raccolto altro che risposte
del tipo: “ciò che sarà meglio per lui” o
“quello che si merita”. Non nego di provare paura per il
suo avvenire ma, anche se non me l’ha detto nessuno, ho già
capito e me ne vergogno, che bisogna “difendere la razza”.
Mi dispiace sapere che è da solo in un paese ostile. Mi
dispiace che non corrisponda a quello che la società vuole che
sia, anzi viene considerato uno scarto per lei, troppo debole e
“diverso” per stare insieme ai suoi concittadini.
Comunque sebbene provi questi sentimenti
contrastanti, cercherò di farmi vedere forte davanti a lui,
facendogli capire che non gli succederà niente di male, perché
più di questo, cosa posso fare? Non posso mettermi contro
l’ideologia di due Stati.
Samuele
Villa IIID