Testo

di identificazione


Mi sentivo come un cane in gabbia, era tutto diventato impossibile, non potevo più giocare nei parchi, non potevo più entrare nei negozi, nei bar o in ogni altro luogo pubblico, non potevo più andare a scuola insieme a tutti i miei amici e compagni, ero costretto a studiare e a vivere nel ghetto insieme solo a ragazzi ebrei come me: dovevamo stare lì, in quel quartiere recintato che prima era colorato e che ora era diventato grigio. Il clima felice e accogliente di un tempo era stato spazzato via dalla disperazione, dalla paura, da quell’atmosfera cupa e grigia che quel posto ora emanava. Come se non bastasse anche a mio padre e a mia madre era stato tolto il lavoro, perciò eravamo senza un soldo, con il morale a terra e obbligati a condividere l'appartamento con altre sette persone; ci avevano portato via anche la casa, per darla a dei nazisti che ci potessero andare ad abitare. E’ assolutamente impossibile capire perché ci odiassero a tal punto da portarci via tutto; c’erano tra noi rinchiusi, alcuni che sostenevano l’idea che, secondo i nazisti, i testimoni di Geova, gli omosessuali, gli apolidi, i delinquenti comuni, ma soprattutto gli zingari e gli ebrei fossero delle persone non degne di vivere insieme ai tedeschi puri, a coloro che erano della razza ariana. Queste persone quindi dovevano essere emarginate se non eliminate.

Inoltre, quegli idioti, venivano saltuariamente nel nostro ghetto con dei camion, per portare altri poveretti e per prelevare dei compagni che convivevano con noi da del tempo. Ogni volta che venivano, dovevamo metterci in fila lungo la strada principale. Il generale di competenza faceva un giro a bordo della sua decappottabile, mentre ci scrutava. Andava senza capote anche d’inverno, per farci vedere che non temeva il freddo. Ad un tratto dava l’ordine di fermare il gruppo. I camion si fermavano e i nuovi scendevano dal cassone mentre un’altra S.S. chiamava coloro che erano più sfortunati degli altri. Questi poveretti dovevano attendere che tutti gli altri scendessero e poi dovevano salire sui camion che erano diretti ai campi della morte. I nostri compagni di stanza cambiavano ogni settimana; alla fine siamo stati presi anche noi e siamo stati portati insieme a tutti i nostri compagni di stanza nel campo di Mathausen, in Austria, da dove uscii vivo solo io

Alessandro D'Andrea 3B.